26 Dicembre 2024
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Rotte possibili per ripensare il welfare dedicato alla disabilità

06-12-2024 11:32 - News
L’articolo riporta e amplia i contenuti dell’intervento dell’autore al Convegno intitolato “Autonomia e Disabilità, progettare insieme il futuro”, organizzato a Cuneo da Fondazione CRC e Fondazione CRC Donare ETS lo scorso 4 ottobre.

Sarà poco convenzionale, ma per definire le rotte possibili delle politiche sociali nell’ambito della disabilità può essere significativo mettere per un attimo in pausa gli interrogativi su quali siano le destinazioni da raggiungere, per convergere invece su quali immaginiamo possano essere i modi più efficaci di navigare.

Sono approdato alla Direzione Welfare della Regione Piemonte dopo aver vissuto per oltre 18 anni il mondo delle politiche sociali in quella che è considerata la prima linea nel mondo dei servizi sociosanitari, ovvero il servizio sociale territoriale (che, se vivi e lavori in Piemonte, nella maggior parte dei casi significa lavorare per un Consorzio di Comuni che gestisce i servizi sociali). Il cambio di prospettiva dagli uffici del grattacielo torinese è interessante perché allarga il campo di osserv-azione, proponendo sfide ambiziose in un’epoca di cambiamenti importanti nel panorama dei servizi dedicati alla disabilità.

Per dare un’idea di massima della portata dei destinatari degli interventi socio-sanitari di cui stiamo parlando, in Piemonte gli ultimi dati disponibili nella pubblicazione “I servizi sociali territoriali in cifre” ci restituiscono un numero di persone con disabilità in carico ai servizi, fra minori e adulti, pari a 38.323 unità.

Uno degli obiettivi che si pone il settore della programmazione regionale dei servizi socio-assistenziali e sociosanitari è quello di tentare di far crescere anche quelle aree del Piemonte nelle quali le azioni degli enti gestori, e in parte delle Asl e del terzo settore, risultano essere meno presenti o pervasive, magari per difficoltà oggettive legate alle strutture degli enti, magari per difficoltà invece soggettive sulle quali c’è più margine per lavorare e per individuare soluzioni alle criticità presenti.

O magari perché possiamo anche ammetterlo: non è semplice portare avanti in modo incisivo misure di sostegno e interventi strutturali nel campo della disabilità, sapendo che per farlo non si può non adeguare costantemente innanzitutto il proprio sguardo su questa immensa area di lavoro.

Alla nostra mente, anche quella di operatori, volontari e famiglie abituate ad occuparsi di sociale da sempre, è richiesto di compiere grandi sforzi se siamo chiamati, come in questo ambito, a mettere spesso in discussione il modo in cui consideriamo le problematiche legate alla disabilità, se non addirittura a decostruire approcci e metodi di lavoro che ormai maneggiamo con confidenza e che ci sembrano essere adeguati a trattare le sfide che si presentano dinnanzi a noi giorno dopo giorno. Ma è davvero così?

Ipotizziamo di essere con dei colleghi a un corso di formazione in presenza, che si tiene in una sala conferenze moderna e confortevole. A un certo punto un ragazzo su una sedia a rotelle che sta per intervenire come relatore si accorge che per salire sul palco deve affrontare un gradino alto 20 centimetri. Gli organizzatori, un po’ imbarazzati, si scusano e tentano di correre ai ripari sistemando una apposita pedana, che per distrazione non avevano posizionato prima. Per tutti noi che assistiamo a questa scena è evidente quale sia stato l’ostacolo posto sulla strada del ragazzo con disabilità: il gradino. Il gradino dannazione. È un problema esterno alla persona con disabilità, non interno. E figuriamoci se è interno.

Va bene. Ma ora poniamo che nella sala conferenze l’impianto di riscaldamento produca quasi costantemente un ronzio che oscilla fra il fastidioso e il disturbante. Due persone nella fila davanti a noi si sono già alzate un paio di volte e sono visibilmente turbate da questo rumore di fondo. Si alzano una terza volta e una di esse sfoga attraverso alcune urla la frustrazione per questo problema al quale sembra non esserci soluzione. Emerge che si tratti di due persone con sindrome dello spettro autistico: quanti dei presenti, istintivamente, pensano che il problema sia legato al fatto che “quelle persone sono autistiche”? Quanti invece senza esitare pensano che vada subito spento l’impianto di riscaldamento?

Proviamo a rifletterci. Non si tratta di essere più solidali con il ragazzo in sedia a rotelle e meno sensibili con le persone con spettro autistico: semplicemente siamo molto più abituati a vedere un gradino come un ostacolo oggettivo per una persona con disabilità motoria, perché nel nostro Paese abbiamo raggiunto una dimensione di consapevolezza che è il frutto di un percorso durato centinaia di anni. Mentre su ciò che rappresenta un ostacolo per la disabilità sensoriale e intellettiva, beh: ci stiamo ancora lavorando mi verrebbe da dire.

Torno a ripetere: è faticoso modificare gli schemi con i quali leggiamo e comprendiamo la realtà che ci circonda1. Anche per quanto riguarda – e qui ritorno al tema di quegli enti gestori che faticano più di altri a programmare ed erogare misure di intervento sociale nel campo della disabilità – gli strumenti dei quali dispongono gli uffici pubblici che si occupano di politiche sociali.

Un aiuto importante, sul piano tecnico, per il personale amministrativo, i funzionari ma anche gli operatori dei servizi sociali, può consistere nel sottolineare una volta per tutte l’importanza che riveste il momento del monitoraggio dei progetti o delle misure di sostegno portati avanti dagli enti locali.

Mi aspetto da un monitoraggio che, se emerge una deviazione di direzione di un’azione sul territorio rispetto a quanto programmato, a questo segua un intervento, relativamente imminente, su quel progetto o su quell’azione: per capirne le ragioni, per agire di conseguenza, per usare tutte le risorse umane e le competenze possibili per farvi fronte. Ciò che ho ripetuto all’interno di più di un convegno sul territorio piemontese è un incoraggiamento a pretendere dagli uffici regionali questo monitoraggio, abbandonando i timori legati al concentrarsi unicamente sulla dimensione del controllo, che pure è certamente parte di una buona iniziativa di monitoraggio. Monitorare le misure di sostegno portate avanti dagli enti locali non è un’attività meramente formale, ma un momento strategico per l’adeguamento delle politiche pubbliche alle esigenze reali dei cittadini. L’assenza di monitoraggio, o l’intenderlo più come un controllo delle forze dell’ordine che come un pit-stop nel quale mettere a punto alcuni aspetti in corso d’opera, compromette la qualità dei risultati e la percezione di trasparenza e responsabilità degli enti coinvolti2.

Un altro modo per tentare di ridurre o ridimensionare la fatica di cui accennavamo in precedenza è occuparsi della propria consapevolezza.

Il Decreto 62 del 3 maggio 2024, definito anche “riforma della disabilità”, in attuazione della legge 227 del 22 dicembre 2021, recante delega al Governo in materia di disabilità, è una riforma prevista dal PNRR riguardante la definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole e della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato. L’obiettivo è quello di assicurare alla persona il riconoscimento della propria condizione di disabilità, rimuovendo gli ostacoli e attivando i sostegni utili al pieno esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, delle libertà e dei diritti civili e sociali nei vari contesti di vita, liberamente scelti.  Il decreto introduce cambiamenti significativi nella valutazione e nell’assistenza delle persone con disabilità. 

Non dovrebbe essere considerato un peccato di narcisismo affermare che il Piemonte ha raggiunto un buon livello, in alcuni territori un eccellente livello, nella programmazione e gestione delle politiche e dei servizi per le persone con disabilità, anche sotto il profilo degli strumenti e percorsi di valutazione multidisciplinare che sono al servizio dei cittadini. Nel marzo dello scorso anno la Giunta Regionale ha pubblicato la D.G.R. n. 18 – 6575 del 6 marzo 2023, un provvedimento che porta a compimento un percorso di aggiornamento normativo dei sistemi di valutazione teso a rendere omogenee sul territorio regionale la definizione dei progetti per le persone con disabilità, nonché le relative fasce e livelli di intensità assistenziale.

Tale modello, basato su schede di valutazione diversificate fra minori e adulti con disabilità, potrà certamente costituire un contributo interessante per la definizione del piano formativo nazionale previsto nello schema di regolamento del Ministro per la disabilità, collegato al Decreto 62/2024, che si occuperà sia della formazione nazionale che di quella a carattere territoriale in favore dei soggetti coinvolti nei procedimenti di valutazione di base, nei procedimenti di valutazione multidimensionale e nell’elaborazione dei progetti di vita individuali.

Nel 2025, anno in cui si svolgerà la fase sperimentale delle azioni previste nel capi II e III del Decreto 62, oltre 4.000 operatori parteciperanno alla formazione nazionale sul cosiddetto “decreto progetto di vita”: sarà un momento importante per tentare, anche con approcci o modalità diverse da quelle individuate in Piemonte, anche a livello nazionale di dotarsi di linee di indirizzo e strumenti che rendano il più possibile omogenea la valutazione multidimensionale per elaborare progetti di vita personalizzati in favore delle persone con disabilità. Consapevolezza quindi, non presunzione, del buon livello degli strumenti che si hanno già a disposizione: perché innovare non significa sempre inventare qualcosa di nuovo3, ma può ragionevolmente essere sinonimo di scoprire che esistono processi e prassi valide e validate e che è possibile replicarle magari in territori diversi da quelle in cui si sono affermate.



Foto di Paolo Barge

Una terza via – potremmo anche utilizzare nuovamente il termine “rotta” – per rendere più solido e funzionale il sistema delle azioni di welfare sul tema della disabilità ha a che fare con lo spezzare “la catena degli alibi”. Alla base di questa proposta di percorso ci deve però essere una sorta di patto sottoscritto fra la pubblica amministrazione, le associazioni, le famiglie, la scuola, il mondo del lavoro: il patto prevede che ognuno di questi soggetti si consideri realmente e quotidianamente come parte di un insieme, all’interno del quale nessuno “vince o perde” come singolo, ma ci si muove in un’ottica di squadra, con gli aspetti negativi e positivi che un simile approccio trascina con sè. Se così non dovesse essere sarà molto complicato poter apprezzare dei miglioramenti significativi nel panorama dei servizi per le persone con disabilità, nonostante il livello molto ambizioso che caratterizza la recente produzione normativa in questo ambito (forse l’ultimo impianto normativo che in ambito sociale aveva puntato così in alto risale alla Legge 328 del 20004, la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali).

Ho citato la “catena degli alibi”: la riflessione che sto per proporre non è farina del mio sacco ma è mutuata da un personaggio che nella scorsa estate abbiamo tutti avuto modo di conoscere o di riscoprire, ovvero Julio Velasco, l’allenatore della nazionale italiana femminile di pallavolo che ha conquistato per la prima volta nella sua storia una medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Parigi 2024.

Velasco durante i suoi primi anni di carriera aveva notato che quando uno schiacciatore non faceva punto, schiacciando male una palla, si rivolgeva al palleggiatore lamentandosi che non aveva potuto schiacciare bene perché il palleggiatore aveva alzato male. Il palleggiatore, a sua volta, si rivolgeva al ricevitore, sottolineando che non aveva potuto alzare bene perché la ricezione era stata inefficace e non gli aveva quindi consentito di compiere un buon gesto tecnico alzando il pallone. A quel punto la catena dell’alibi si interrompeva per forza di cose e inesorabilmente: il ricevitore si guardava un po’ intorno in modo circospetto e dubbioso, ma non poteva di certo scaricare la colpa sul battitore della squadra avversaria, né urlargli “batti facile, così io posso ricevere bene e fare una bella figura”.

Velasco pretendeva dai suoi giocatori una cosa non scontata: agli schiacciatori chiedeva di “attaccare bene palloni alzati male. Perché così facendo poi quelli alzati bene li avrebbero schiacciati benissimo, non bene: benissimo”.

Per la nostra rete di attori delle politiche sociali a mio modesto avviso è esattamente la stessa cosa: ci saranno sempre degli elementi di debolezza o di imprevisto all’interno di un progetto, nel portare avanti una misura di sostegno, nel programmare un servizio. A volte addirittura ci sarà chi lavora male. È proprio lì che si vedrà se saremo capaci di fare squadra o se ci accontenteremo di badare al risultato che farà l’ente che rappresentiamo o di cui facciamo parte. Se saremo più legati al risultato generale o se ci compiaceremo di aver concluso un bel “gesto tecnico” a fronte di un esito finale deludente per gli altri partners con cui eravamo chiamati a cooperare. Non si tratta di filosofia spicciola, di un orizzonte al quale tendere: esistono realtà lavorative dove tutto questo sta già accadendo, adesso, mentre leggete questo articolo.

Voglio citarne un esempio: in provincia di Cuneo è in fase di conclusione un progetto dal titolo “Autonomia e Disabilità”, che rientra all’interno della sfida +Comunità del Piano Pluriennale 2021-2024 della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo. Attraverso questa sfida operatori e personale dei servizi sociali, dell’Asl, delle cooperative sociali, dell’associazionismo, insieme alle famiglie dei ragazzi con disabilità hanno lavorato “in squadra”, fra gli altri su temi come la presa in carico precoce, le sperimentazioni di nuovi modelli di autonomia, la formazione degli operatori dei centri diurni pensata come benzina per un’azione propulsiva verso l’esterno che definisca nuove forme di semiresidenzialità. L’obiettivo ambizioso era (e resta) quello di sviluppare una comunità sempre più coesa e inclusiva, che favorisca il benessere sociale e culturale delle persone, una comunità capace di valorizzare opportunità per una co-progettazione pubblico-privata su base provinciale5, favorendo percorsi di accompagnamento delle famiglie, con tanta pazienza, pochi alibi (o nessuno), un atteggiamento determinato, seguendo una rotta forse più complicata ma allo stesso tempo più affascinante e, soprattutto, destinata a restituire cambiamenti realmente migliorativi nelle vite delle persone con disabilità e delle loro famiglie.

Quando parlo con alcuni degli educatori o dei volontari che hanno partecipato al progetto, hanno gli occhi che brillano mentre raccontano con passione i risvolti importanti derivati da questo modo collaborativo di lavorare. E non perché sono troppo romantici o sensibili: credo sia perché hanno capito che si può lavorare con metodo senza rinunciare alle emozioni, si possono offrire competenze e talenti individuali sapendoli però mettere al servizio di obiettivi comuni, ci si può occupare di disabilità tenendo insieme la preparazione che deriva da anni di studio, la competenza frutto dell’esperienza, la capacità di gestire sia i successi che la frustrazione che fanno parte di un lavoro di cura. E perché spezzare la catena degli alibi mette a fuoco la differenza enorme che passa, se il tuo obiettivo è lavorare per l’inclusione, fra prossimità e vicinanza.

Foto di Paolo Barge
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