La sfida politica per i diritti degli utenti della salute mentale passa dall’uso di un linguaggio corretto
17-09-2024 14:24 - News
Lettera aperta del portale Mad in Italy e dell’Associazione Diritti alla Follia
È sottoscritta congiuntamente dagli amministratori e dalle amministratrici di Mad in Italy, un portale di informazione scientifica, e dall’Associazione Diritti alla Follia, la lettera aperta centrata sul linguaggio stigmatizzante con il quale, al Meeting di Rimini 2024 svoltosi a fine agosto, è stata trattata la questione del disagio psichico. La narrazione proposta all’evento – evidenziano gli Enti firmatari della lettera – «rischia di ridurre il dibattito a una questione di compassione piuttosto che di giustizia. Queste persone non devono essere viste come soggetti da compatire ma come individui che meritano pieno rispetto e diritti, inclusa la partecipazione attiva alla società».
Su un pannello poggiato su un muro figura la scritta, composta in modo artigianale utilizzando del nastro adesivo, “I want to be heard” (Voglio essere ascoltato).
Il Meeting di Rimini 2024 (il cui programma è pubblicato a questo link), giunto alla sua 45ª edizione e svoltosi dal 20 al 25 agosto con il tema “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?“, ha incluso un panel dedicato alla salute mentale intitolato “Disagio mentale e compassione” (se ne legga a quest’altro link). Questo spazio di discussione ha affrontato la questione del disagio psichico utilizzando termini come “compassione” e “ultimi”, concetti che, sebbene centrali nel discorso possono risultare problematici per diversi motivi.
Questo linguaggio, frequentemente riscontrato nel discorso pubblico, riduce la complessità delle vite e delle esperienze delle persone coinvolte, rischiando di perpetuare una visione distorta e altamente stigmatizzante. Nel nostro Paese, è comune sentire discorsi che dipingono gli/le utenti della salute mentale come “ultimi”, “deboli”, “fragili” o “emarginati”. Sebbene probabilmente non intenzionato a offendere, questo modo di esprimersi contribuisce a mantenere un’immagine di fragilità e marginalità che non riflette la realtà complessa e diversificata di queste persone e dei loro famigliari. Tale retorica ostacola un vero progresso sociale, mantenendole ai margini del dibattito pubblico.
Quindi, ci sta sfuggendo di mano l’essenziale per rafforzare la grande fatica a resistere?
Considerare gli utenti della salute mentale come “ultimi” riflette una visione limitata e antiquata che non riconosce appieno i loro diritti e il loro valore come cittadini e cittadine a pieno titolo. Continuare a usare questo linguaggio rinforza una narrativa ed enfatizza il concetto di inferiorità sociale, distogliendo l’attenzione dai reali problemi che devono essere affrontati e dalle soluzioni da implementare.
Inoltre, vedere le persone che manifestano una qualche sofferenza psichica come “ultime” suggerisce che i curanti non abbiano una chiara comprensione di come affrontare la loro sofferenza, se non attraverso la “sedazione”. Questo atteggiamento riflette un modello biomedico dei disturbi psichici, che considera le persone “malate”, rendendo evidente l’incapacità degli operatori sanitari nel comprendere le cause del disagio e nell’adottare le strategie necessarie per superarlo.
La questione non riguarda solo il linguaggio, ma anche l’approccio della società e della politica verso i diritti degli/delle utenti della salute mentale. Parlare di “ultimi” in questi termini rischia di ridurre il dibattito a una questione di compassione piuttosto che di giustizia. Queste persone non devono essere viste come soggetti da compatire ma come individui che meritano pieno rispetto e diritti, inclusa la partecipazione attiva alla società.
Queste riflessioni in realtà riguardano tutti. Politici, media, operatori del settore, persone con esperienza di disagio emotivo, dovrebbero essere tra i primi ad impegnarsi per un cambiamento radicale di questa narrativa ottusa e reazionaria.
Concludendo, con questa lettera, invitiamo a riflettere sull’importanza di cambiare il paradigma linguistico e sociale da un linguaggio di marginalizzazione a uno che riconosce la piena dignità e i diritti di questi individui e, in definitiva, di tutta la collettività.
È sottoscritta congiuntamente dagli amministratori e dalle amministratrici di Mad in Italy, un portale di informazione scientifica, e dall’Associazione Diritti alla Follia, la lettera aperta centrata sul linguaggio stigmatizzante con il quale, al Meeting di Rimini 2024 svoltosi a fine agosto, è stata trattata la questione del disagio psichico. La narrazione proposta all’evento – evidenziano gli Enti firmatari della lettera – «rischia di ridurre il dibattito a una questione di compassione piuttosto che di giustizia. Queste persone non devono essere viste come soggetti da compatire ma come individui che meritano pieno rispetto e diritti, inclusa la partecipazione attiva alla società».
Su un pannello poggiato su un muro figura la scritta, composta in modo artigianale utilizzando del nastro adesivo, “I want to be heard” (Voglio essere ascoltato).
Il Meeting di Rimini 2024 (il cui programma è pubblicato a questo link), giunto alla sua 45ª edizione e svoltosi dal 20 al 25 agosto con il tema “Se non siamo alla ricerca dell’essenziale, allora cosa cerchiamo?“, ha incluso un panel dedicato alla salute mentale intitolato “Disagio mentale e compassione” (se ne legga a quest’altro link). Questo spazio di discussione ha affrontato la questione del disagio psichico utilizzando termini come “compassione” e “ultimi”, concetti che, sebbene centrali nel discorso possono risultare problematici per diversi motivi.
Questo linguaggio, frequentemente riscontrato nel discorso pubblico, riduce la complessità delle vite e delle esperienze delle persone coinvolte, rischiando di perpetuare una visione distorta e altamente stigmatizzante. Nel nostro Paese, è comune sentire discorsi che dipingono gli/le utenti della salute mentale come “ultimi”, “deboli”, “fragili” o “emarginati”. Sebbene probabilmente non intenzionato a offendere, questo modo di esprimersi contribuisce a mantenere un’immagine di fragilità e marginalità che non riflette la realtà complessa e diversificata di queste persone e dei loro famigliari. Tale retorica ostacola un vero progresso sociale, mantenendole ai margini del dibattito pubblico.
Quindi, ci sta sfuggendo di mano l’essenziale per rafforzare la grande fatica a resistere?
Considerare gli utenti della salute mentale come “ultimi” riflette una visione limitata e antiquata che non riconosce appieno i loro diritti e il loro valore come cittadini e cittadine a pieno titolo. Continuare a usare questo linguaggio rinforza una narrativa ed enfatizza il concetto di inferiorità sociale, distogliendo l’attenzione dai reali problemi che devono essere affrontati e dalle soluzioni da implementare.
Inoltre, vedere le persone che manifestano una qualche sofferenza psichica come “ultime” suggerisce che i curanti non abbiano una chiara comprensione di come affrontare la loro sofferenza, se non attraverso la “sedazione”. Questo atteggiamento riflette un modello biomedico dei disturbi psichici, che considera le persone “malate”, rendendo evidente l’incapacità degli operatori sanitari nel comprendere le cause del disagio e nell’adottare le strategie necessarie per superarlo.
La questione non riguarda solo il linguaggio, ma anche l’approccio della società e della politica verso i diritti degli/delle utenti della salute mentale. Parlare di “ultimi” in questi termini rischia di ridurre il dibattito a una questione di compassione piuttosto che di giustizia. Queste persone non devono essere viste come soggetti da compatire ma come individui che meritano pieno rispetto e diritti, inclusa la partecipazione attiva alla società.
Queste riflessioni in realtà riguardano tutti. Politici, media, operatori del settore, persone con esperienza di disagio emotivo, dovrebbero essere tra i primi ad impegnarsi per un cambiamento radicale di questa narrativa ottusa e reazionaria.
Concludendo, con questa lettera, invitiamo a riflettere sull’importanza di cambiare il paradigma linguistico e sociale da un linguaggio di marginalizzazione a uno che riconosce la piena dignità e i diritti di questi individui e, in definitiva, di tutta la collettività.